
I videogiochi vintage più famosi della storia
Pac-Man, Frogger, Space Invaders, Tetris e i loro cugini datati
Gli ultimi decenni sono stati segnati da un fenomeno che sembra non avere limiti: quello dei videogiochi.
Sono sempre più diffusi nel mondo tornei in cui migliaia di ragazzi si sfidano in battaglie planetarie, spara-tutto, o gare sportive. Tra i canali Youtube più seguiti ci sono quelli dei videogamer professionisti con il commento in diretta di ogni loro azione. Un mondo in cui la grafica 3D, la diffusione di visori e di sensori corporali porterà i giocatori a un livello di coinvolgimento mai visto, in cui ci si potrà immedesimare sempre più con i propri alter ego virtuali.
Ma vi ricordate dove e quando tutto ebbe inizio? Le ore trascorse sui rigidi joystick dei primi videogiochi cabinati a seguire navicelle triangolari o cerchi affamati?
La soddisfazione di poter scrivere il proprio nome nell’olimpo dei top scorer dei campioni di Street Fighter, e la sensazione di sentirsi degli esperti di arti marziali, anche se solo virtuali.
E ancora le chiacchiere con gli amici sui trucchi per superare i vari livelli, la lettura di riviste che mostravano i videogiochi in copertina, canzoni come Pac-Man Fever di Buckner & Garcia che passavano alla radio. Tempi in cui il desiderio più grande dei bambini era possedere le console più famose o monete da spendere nei cabinati delle sale giochi.
Ci sono alcuni tra quei videogiochi che pur nella loro semplicità, bruttezza e coi loro limiti rimarranno per sempre nei nostri cuori. Di seguito i videogiochi vintage più famosi della storia secondo noi.
Spacewar (1962)
Il primo vero videogioco di massa, ai tempi fu una vera e propria rivoluzione! I videogiocatori di oggi riderebbero della sua grafica primitiva e della mancanza di effetti speciali, eppure Spacewar può essere considerato il primo videogioco della storia, quello da cui tutto ha avuto inizio.
Il gioco consisteva in due navicelle spaziali molto stilizzate, ciascuna dotata di trentuno missili, comandate da due giocatori avversari. Le navicelle potevano essere manovrate attraverso quattro interruttori posti sulla console di uno dei primissimi computer (il DEC PDP-1), che consentivano di virare in senso orario e antiorario, di accelerare e di lanciare missili.
Bisognava evitare di essere risucchiati dal buco nero posto al centro della schermata. A vincere la partita era chi per primo riusciva a colpire l’avversario con un missile.
Era un gioco privo d’intelligenza artificiale, quindi era possibile giocarci solo contro un altro avversario umano e la grafica era in bianco e nero.
Grazie al passaparola tra studenti, Spacewar si diffuse rapidamente su tutti i computer delle università statunitensi e per molti costituì la spinta per avvicinarsi al mondo della programmazione.
Space Invaders (1978)
Sono passati poco più di 40 anni da quel giugno 1978 quando la società giapponese Taito Corporation iniziò a distribuire nei bar e nelle sale giochi il primo spara-tutto della storia. Fu l’inizio di un’epoca. Creato dal giovane sviluppatore Tomohiro Nishikado, in breve tempo fece il giro del mondo (in Italia arrivò l’anno successivo) cambiando abitudini e stili di vita dei giovani.
Per la prima volta un videogioco finì anche nelle lavanderie e nei ristoranti e molti negozianti cambiarono attività: anziché vendere frutta o prodotti per la casa, comprarono decine di cabinet di Space Invaders e aprirono sale giochi. In Giappone si verificò una carenza di monetine da 100 Yen, necessarie per giocare e per ovviare al problema il governo giapponese fu costretto a quadruplicare le emissioni di monete.
L’obiettivo era sparare e distruggere le cinque file di alieni che si muovevano avanti e indietro sullo schermo per sopravvivere più a lungo e distruggere quanti più alieni possibile. Si poteva anche dividere lo schermo e giocare contro un amico.
Space Invaders fu il primo gioco elettronico a scatenare il “boom degli arcade” ed è tuttora fra i più clonati della storia. Visto l’incredibile successo, il videogioco venne convertito per la maggior parte dei computer e console disponibili all’epoca sul mercato.
Per vincere c’era un trucco, chiamato come il suo ideatore Eric Furrer, che lo usò per superare il precedente record, totalizzando in 38 ore e 37 minuti 1.114.000 punti. Si basava su due semplici passaggi: dopo 22 colpi sparati bisognava aspettare la Nave del Mistero, distruggerla e guadagnare 300 punti. Poi se ne sparavano altri 14 e si aspettava ancora la Nave. E così via per ogni livello.
Meno alieni c’erano e più andavano veloci quelli rimasti. Una volta distrutta la prima ondata di alieni, la Terra non era salva né la partita vinta: gli alieni continuavano sempre ad arrivare all’infinito.
Pac-Man (1980)
Una leggenda nell’universo dei videogiochi e forse l’arcade-game più famoso della storia. Da giocare per ore, avendo monetine a sufficienza.
Il personaggio doveva destreggiarsi in un percorso indefinito evitando i temutissimi fantasmini e collezionando le famose palline gialle.
Pac-Man nacque nel 1980 da un’idea di Iwatani Tōru, designer di Namco, società di software giapponese nel campo dei videogiochi. Il creatore uscì una sera a mangiare la pizza in compagnia di alcuni amici. Dopo aver preso il primo pezzo e aver osservato la forma che rimaneva (un cerchio a cui mancava una parte e che dava l’idea di avere una bocca) ebbe l’ispirazione per creare un nuovo gioco.
Inizialmente il gioco fu commercializzato con il nome giapponese Puck-Man, ispirato al gesto del protagonista di “chiudere e aprire la bocca”, pakupaku in giapponese. Ma in seguito, per commercializzare il gioco negli Stati Uniti, i produttori cambiarono il nome in Pac-Man, per evitare l’assonanza con Fuck-Man.
È il gioco arcade di maggior successo di tutti i tempi, ha venduto 293.822 macchine dal 1981 al 1987. Il record di gioco è quello segnato nel 1999 da Billy Mitchell, videogamer di professione che raggiunse il punteggio perfetto di 3.333.360 punti dopo aver superato 255 livelli. Un bug nel codice del gioco impediva di oltrepassare, infatti, il 256° livello.
Le ragioni del successo fulminante di Pac-Man furono diverse. In primo luogo, era adatto sia ai ragazzi che alle ragazze, e il suo formato era più divertente e meno violento rispetto agli altri videogame. Inoltre, nonostante la sua semplicità di base, dava al giocatore ampi margini di miglioramento, dato che attraverso la pratica si imparavano diversi trucchi per migliorare il punteggio.
Donkey Kong (1981)
Fra i più amati, popolari, giocati e imitati di sempre. Un classico sviluppato da Nintendo uscito nel 1981, apprezzato sia dai bambini che dagli adulti. Era un videogioco a piattaforme creato da Shigeru Miyamoto. I personaggi in 3D si muovevano in un’ambientazione per la maggior parte bidimensionale.
In Donkey Kong fece la sua prima comparsa Jumpman, il personaggio della Nintendo diventato famoso successivamente con il nome di Mario, che per salvare la principessa Pauline doveva destreggiarsi in un percorso pieno di ostacoli e battersi con lo scimmione Donkey Kong. Il vero protagonista era proprio lui, che troneggiava in tutta la sua stazza in cima allo schermo.
Attraverso salti e abilità di scalata, i giocatori navigavano su diversi livelli, usando un martello per distruggere oggetti e raccogliere bonus lungo la strada per ottenere punti aggiuntivi.
Donkey Kong è stato considerato uno dei giochi più impegnativi della sua epoca e ha segnato il debutto del genere dei giochi platform.
Frogger (1981)
Una rana che deve attraversare indenne una strada trafficata? Detta così sembra una trama tristissima, ma a quei tempi rappresentò una rivoluzione. L’obiettivo del gioco era estremamente banale: controllare la ranocchia fino alla sommità dello schermo e metterla al sicuro in un’umida tana. Eppure riusciva, nei primi anni ‘80, a generare interminabili code di giocatori davanti al cabinato, perché la velocità dei veicoli in transito creava tensione, e durante il gioco gli amici erano tutti lì accerchiati a urlare quando era il momento di partire o quando un’auto passava troppo vicino.
La meccanica di gioco era sempre uguale, lo schermo era fisso, la musichina penetrante e ipnotica, ma Frogger resta un capolavoro di gameplay e immediatezza.
La realizzazione grafica del gioco vista oggi era bruttissima, ma tecnicamente Frogger era uno dei primi videogames a disporre di ben due processori Z80. E parliamo del 1981, non dimentichiamolo!
Viene considerato un classico del periodo d’oro dei giochi arcade ed è infatti possibile trovarne una conversione per quasi tutte (se non tutte) le macchine disponibili dall’uscita del gioco nelle sale.
Tetris (1984)
Un classico intramontabile, uno dei giochi più giocati di sempre, lo scopo era incastrare mattoncini dello stesso colore in modo da sgretolare poco a poco un muro virtuale.
Progettato e programmato da Alexey Leonidovich Pajitnov nella prima metà degli anni Ottanta per il Centro Informatico Dorodnicyn di Mosca, Tetris è il gioco che tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita. Un gioco immediato, ipnotico e strategico.
Il nome deriva dall’unione di due termini che secondo il suo ideatore descrivevano efficacemente il videogioco: “tetramino” e “tennis”. Il primo si riferiva a una figura piana costituita da quattro quadrati di uguali dimensioni uniti tra loro lungo uno o più lati; il secondo allo sport preferito da Pajitnov.
L’idea alla base di Tetris nasceva dai puzzle a cui il suo inventore giocava da bambino. Pajitnov pensò di “far cadere” i pezzi scelti dal computer piuttosto che farli scegliere al giocatore per rendere il gioco più avvincente; inoltre, per andare incontro alle limitazioni tecniche della macchina a sua disposizione, l’obsoleto Elektronika 60 basato su processore M2, decise che le forme componibili tra loro fossero al massimo sette e che una riga completa scomparisse, piuttosto che rimanere a schermo, alleggerendo così il carico alla RAM di soli 8 KB. Con questa meccanica, il giocatore veniva “premiato” dal gioco non con banali punti, ma con uno spazio di manovra maggiore nel gioco stesso.
Il gioco non aveva bisogno di grafica, dato che i quadrati potevano essere visualizzati come semplici caratteri di testo, rendendone semplice la programmazione.
Chi ci ha giocato sa che una parte fondamentale del gioco era svolta dalla musica che accompagnava la caduta delle tessere, sempre più incalzante nel momento in cui si passava da un livello a un altro.
La difficoltà principale di Tetris stava nel fatto che, a ogni livello superato, la velocità del gioco aumentava e si aveva meno tempo per decidere dove incastrare il nuovo pezzo, e alla fine si perdeva inevitabilmente. Secondo diversi matematici, in realtà a Tetris anche giocando sempre e solo al livello più facile si perderebbe. Il gioco non può quindi andare avanti all’infinito. Intere generazioni ci hanno passato ore a giocarci e alcuni psicologi hanno parlato anche di “effetto Tetris”, un particolare disturbo che si verifica quando si passa troppe ore a fare un’attività che richiede molta concentrazione.
Super Mario Bros (1985)
Chi può mai dimenticare questo gioco iconico? Super Mario Bros è la consacrazione di un mito.
I personaggi principali erano l’idraulico di origini italiane Mario e suo fratello Luigi. I due dovevano affrontare diverse peripezie correndo, saltando ed evitando ostacoli. Giocare a Super Mario Bros era davvero un’avventura.
Ben presto con i suoi salti e i potenziamenti all’interno di un favoloso mondo di funghi alla ricerca di una principessa rapita, sulla base di musiche accattivanti come mai prima, Super Mario Bros diventò il modello per tutti i platform sviluppati successivamente.
La serie Super Mario è un vero e proprio colosso nel panorama videoludico, con oltre duecento videogiochi. Con 856 milioni di copie vendute in tutto il mondo, ha il primato di serie di videogiochi più venduta e conosciuta al mondo. L’idraulico baffuto è stato sfruttato il più possibile e sono state create anche delle serie spin-off come Mario Kart, Mario Party e Luigi’s Mansion.
Il primo gioco in cui è apparso Super Mario era Donkey Kong. Nella versione arcade del 1981, Mario si chiamava Jumpman e doveva salvare una fanciulla in pericolo, minacciata dal gorilla Donkey Kong.
L’anno successivo interpretava per la prima volta la parte del “cattivo” nel videogioco Donkey Kong Junior.
Nel 1983 il nostro eroe appariva per la prima volta in coppia con il fratello Luigi nel videogioco arcade Mario Bros, primo titolo della serie Mario.
Nel 1985 il piccolo idraulico svolgeva la sua prima missione “ufficiale” nel mitico Regno dei Funghi entrando per sempre nell’immaginario di ogni ragazzo nato da quel momento in poi.
The Legend of Zelda (1986)
Negli anni ‘80, mentre Miyamoto raccoglieva i primi elogi da parte di Nintendo in seguito alla creazione del cabinato di Donkey Kong, i videogiochi di ruolo sviluppati in Occidente richiamavano l’attenzione del pubblico. Proprio per questo Miyamoto decise di realizzare un’avventura in cui il giocatore potesse esplorare in totale libertà un regno fantastico.
Ad aiutarlo nella realizzazione della storia fu Takashi Tezuka, che creò un canovaccio semplice, messo in atto da un trittico di personaggi che si rifacevano agli archetipi del genere fantasy: un giovane cavaliere dalle sembianze elfiche doveva salvare una principessa dal Signore Oscuro.
The Legend of Zelda fu una delle prime esperienze open world dove il giocatore poteva esplorare senza soluzione di continuità la terra di Hyrule alla ricerca dei tre frammenti della Triforza. Non c’erano vincoli narrativi a dettare le tempistiche di gioco, e la storia dei personaggi che popolavano Hyrule era esclusivamente nel manuale d’istruzioni del gioco.
Il protagonista era Link: colui che collegava giocatore e gioco, un avatar che veniva chiamato a risolvere la situazione.
Capostipite di una serie che ancora oggi definisce nuovi parametri di bellezza e qualità. Così longevo da necessitare, per la prima volta, di un sistema di salvataggio affinché il giocatore potesse riprendere l’avventura esattamente dove l’aveva abbandonata.
Una saga da 80 milioni di copie vendute, formata da ben 16 giochi usciti negli ultimi trent’anni. Dall’uscita del primo Zelda, le avventure del magico mondo di Hyrule hanno conquistato il mondo intero. Il senso di scoperta, la sorpresa nel ritrovarsi in luoghi sconosciuti, le emozioni date dal trovare un tesoro… tutte sensazioni che sono sempre state un punto centrale nei giochi della serie.
I primi videogame della serie avevano una visuale dall’alto, tipica dei giochi di ruolo degli anni ‘80 e dei primi anni ‘90. Tra gli anni ‘90 e 2000 si passò gradualmente alla visuale 3D: il capitolo della saga Breath of the Wild è semplicemente un capolavoro anche a livello visivo, grazie a una cura estetica davvero impareggiabile.
SimCity (1989)
Ha introdotto un nuovo genere di videogames, trasformando il giocatore in un creatore onnipotente che ha la responsabilità di milioni di vite e diventando il precursore dei giochi “city-builder”.
Lo scopo del gioco era costruire una città e gestirla nelle vesti di primo cittadino, dando la possibilità agli utenti di soddisfare le proprie manie di ordine e grandezza. Al suo interno si potevano inserire tutti gli edifici necessari, palazzi, ospedali, scuole, centrali di polizia, caserme dei pompieri e si potevano anche fissare imposte e tasse.
La particolarità del gioco consisteva nel fatto che per la prima volta il protagonista del gioco non era un personaggio, bensì una città e il giocatore stesso poteva farlo evolvere a suo piacimento. E così poteva decidere di impiegare ore a costruire una città e poi annientarla.
Uno degli elementi che ha aiutato a rendere epica e immortale la saga dei SimCity, infatti, era l’eventualità che un terribile disastro naturale potesse abbattersi sulla città in qualsiasi momento. Terremoti, tornadi, inondazioni, perfino eventi estremi e inverosimili, come l’arrivo di mostri o invasioni aliene. L’idea di poter perdere tutto in un singolo istante spingeva a tenere sempre alta l’attenzione, ad accumulare risorse e a trovare il modo per essere preparati a ogni eventualità.
Nel perenne ciclo della vita si susseguivano creazione e distruzione, vera ricetta vincente di SimCity.
Nel corso degli anni SimCity ha dimostrato che i videogiochi hanno del potenziale non solo quando simulano una realtà straordinaria, ma anche quando hanno a che fare con quella ordinaria. Grazie a SimCity milioni di persone si sono cimentate con la progettazione e la gestione di ambienti urbani, in alcuni casi facendone anche un lavoro; c’è chi ha creato città perfette mettendoci anni e centinaia di tentativi, chi ancora oggi si diverte a distruggere tutto.
Street Fighter II (1991)
Street Fighter II è riconosciuto all’unanimità come il fighting game più rappresentativo della storia.
Era tutto ciò che si poteva desiderare da un seguito e si era trasformato in un titolo prevalentemente competitivo, dove tutti i personaggi erano giocabili e non si affrontava più una semplice serie di combattenti nei panni di un solo protagonista. L’art direction era incredibile, le animazioni spettacolari per l’epoca, i combattimenti uno spasso, e la struttura permetteva a ogni videogiocatore di sfogare il suo spirito guerresco meglio di qualunque altro titolo.
La trama era apparentemente assente. Tuttavia, a seconda del personaggio con cui si terminava il gioco il finale era diverso. La caratterizzazione dei personaggi era uno dei punti di forza del titolo. Per esempio Ryu e Ken: stessa tecnica di combattimento, ma cultura e stile di vita opposti. Qui si confrontavano meditazione e voglia di divertirsi, introversione e spavalderia, Giappone e USA.
Il confronto culturale e personale si realizzava con ciascuno degli altri personaggi. Guile e Chun Li erano animati dalla vendetta, Honda dalla voglia di imporre il sumo come disciplina mondiale, Zangief il russo dallo spirito nazionalistico. Per quanto riguardava i personaggi più originali, Dhalsim e Blanka, il primo era un lottatore paradossale perché combatteva per difendere i valori del pacifismo, il secondo senza un motivo se non ritrovare se stesso.
Ogni personaggio, oltre a possedere un proprio bagaglio tecnico, rappresentava quindi un modello in cui potersi riconoscere.
La musica era impeccabile grazie al talento di Yoko Shinomura che avrebbe in seguito lavorato su numerosi giochi di successo.
Doom (1993)
La serie che ha inventato lo spara-tutto in prima persona (o FPS – First person shooter), considerato uno dei più bei videogiochi al mondo. Più che un semplice videogioco, fu un vero e proprio fenomeno di massa, capace di influenzare in seguito il mondo dei videogiochi ma anche della musica e del cinema.
Grazie a un geniale uso della grafica 3D, uno stile di gioco semplice e veloce e un alto tasso di violenza, divenne incredibilmente popolare, tanto che per diversi anni questo genere di giochi è stato normalmente chiamato “alla Doom”.
Nell’autunno 1992, poco dopo il successo di Wolfenstein 3D, la id Software spostò la sua sede a Mesquite, in Texas, e si separò dall’ex publisher Apogee Software. La maggior parte dei membri del team cominciò subito lo sviluppo di Spear of Destiny, versione commerciale di Wolfenstein 3D, il programmatore e ideatore di giochi John Carmack era libero di sviluppare una nuova tecnologia, che avrebbe permesso caratteristiche come l’utilizzo di texture e di variazioni di altezze nei piani orizzontali, illuminazione variabile e stanze non necessariamente ortogonali.
Tom Hall, direttore creativo, propose di creare una nuova versione di Commander Keen a tre dimensioni, mentre qualcuno propose di acquistare i diritti di Aliens – Scontro finale per realizzarne un adattamento. Entrambi i progetti naufragarono.
Alla fine venne accettata l’idea di base di John Carmack: Doom sarebbe stato l’ideale incontro tra Aliens – Scontro finale e La Casa 2: dal primo vennero prese le atmosfere futuristiche e claustrofobiche (in particolare nel primo episodio, ambientato sul satellite di Marte Phobos); dal secondo l’aspetto grottesco dei mostri, l’uso di armi come il fucile a pompa e la motosega, e in generale la tematica splatter.
Anche lo stesso nome Doom (che in italiano può essere tradotto come “condanna”) ha un’origine cinematografica: fu scelto da John Carmack dopo la visione del film Il colore dei soldi, dove viene nominato in una battuta pronunciata da Tom Cruise.
La prima versione pubblica e ufficiale di Doom fu trasmessa nel server FTP dell’Università di Wisconsin-Madison intorno alla mezzanotte del 10 dicembre 1993, pochi minuti dopo, l’enorme numero di utenti che cercavano di scaricare in contemporanea il file provocò il crash del sistema. Nei primi cinque mesi dall’uscita, la versione shareware fu prelevata da 1,5 milioni di persone.
Doom ebbe numerosi adattamenti: realizzato originariamente per il sistema operativo DOS, fu convertito per Windows 95 in occasione del lancio delle DirectX di Microsoft, oltre che sulla maggior parte delle console disponibili.
Doom fu il primo gioco a implementare la tecnologia BSP (partizione binaria dello spazio), tecnica che suddivide i poligoni più complessi (le mappe di gioco) in elementi più semplici in modo tale da velocizzarne la renderizzazione. Introdusse anche il concetto di “motore grafico”, un sistema slegato dalle altre risorse del gioco e sviluppato indipendentemente. Riuscì a raggiungere vette incredibili a livello sia tecnico che di gameplay, andando a ridefinire lo standard degli FPS.
Il design dei livelli, dei mostri e il ritmo dell’azione appassionarono tutti coloro che l’hanno provato. La novità di poter immettere direttamente nel gioco le armi create dai giocatori stessi l’hanno reso personalizzabile al massimo. Con Doom è nato inoltre un nuovo sistema di gioco: il multiplayer. Non solo la campagna principale, ma soprattutto le sfide online l’hanno reso un capolavoro del divertimento.
Si dice persino che fosse utilizzato dai Marines per addestrare le reclute e testare lo stress dei cadetti durante le azioni militari. E sembra che per diverso tempo sia stato il software più diffuso su personal computer, persino più del sistema operativo Windows 95.